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Cuore
 
di Edmondo De Amicis
  • Dicembre 
  • Il trafficante
  • Vanità
  • La prima nevicata
  • Il muratorino
  • Una palla di neve
  • Le maestre
  • In casa del ferito
  • Il piccolo scrivano fiorentino (racconto mensile)
  • La volontà

  • Gratitudine
     
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     DICEMBRE 

    Il trafficante 
    1, giovedì 

    Mio padre vuole che ogni giorno di vacanza io mi faccia venire a casa uno de' miei compagni, o che vada a trovarlo, per farmi a poco a poco amico di tutti. Domenica andrò a passeggiare con Votini, quello ben vestito, che si liscia sempre, e che ha tanta invidia di Derossi. Oggi intanto è venuto a casa Garoffi, quello lungo e magro, col naso a becco di civetta e gli occhi piccoli e furbi, che par che frughino per tutto. È figliuolo d'un droghiere. È un bell'originale. Egli conta sempre i soldi che ha in tasca, conta sulle dita lesto lesto, e fa qualunque moltiplicazione senza tavola pitagorica. E rammucchia, ha già un libretto della Cassa scolastica di risparmio. Sfido, non spende mai un soldo, e se gli casca un centesimo sotto i banchi, è capace di cercarlo per una settimana. Fa come le gazze, dice Derossi. Tutto quello che trova, penne logore, francobolli usati, spilli, colaticci di candele, tutto raccatta. Son già più di due anni che raccoglie francobolli, e n'ha già delle centinaia d'ogni paese, in un grande album, che venderà poi al libraio, quando sarà tutto pieno. Intanto il libraio gli dà i quaderni gratis perché egli conduce molti ragazzi alla sua bottega. In iscuola traffica sempre, fa ogni giorno vendite d'oggetti, lotterie, baratti; poi si pente del baratto e rivuole la sua roba; compra per due e smercia per quattro; gioca ai pennini e non perde mai; rivende giornali vecchi al tabaccaio, e ha un quadernino dove nota i suoi affari, tutto pieno di somme e di sottrazioni. Alla scuola non studia che l'aritmetica, e se desidera la medaglia non è che per aver l'entrata gratis al teatro delle marionette. A me piace, mi diverte. Abbiamo giocato a fare il mercato, coi pesi e le bilancie: egli sa il prezzo giusto di tutte le cose, conosce i pesi e fa dei bei cartocci spedito, come i bottegai. Dice che appena finite le scuole metterà su un negozio, un commercio nuovo, che ha inventato lui. È stato tutto contento ché gli ho dato dei francobolli esteri, e m'ha detto appuntino quando si rivende ciascuno per le collezioni. Mio padre, fingendo di legger la gazzetta, lo stava a sentire, e si divertiva. Egli ha sempre le tasche gonfie delle sue piccole mercanzie, che ricopre con un lungo mantello nero, e par continuamente sopra pensiero e affaccendato, come un negoziante. Ma quello che gli sta più a cuore è la sua collezione di francobolli: questa è il suo tesoro, e ne parla sempre, come se dovesse cavarne una fortuna. I compagni gli danno dell'avaraccio, dell'usuraio. Io non so. Gli voglio bene, m'insegna molte cose, mi sembra un uomo. Coretti, il figliuolo del rivenditore di legna, dice ch'egli non darebbe i suoi francobolli neanche per salvar la vita a sua madre. Mio padre non lo crede. - Aspetta ancora a giudicarlo, - m'ha detto; - egli ha quella passione; ma ha cuore. 


    Vanità 
    5, lunedì 

    Ieri andai a far la passeggiata per il viale di Rivoli con Votini e suo padre. Passando per via Dora Grossa, vedemmo Stardi, quello che tira calci ai disturbatori, fermo impalato davanti a una vetrina di librario, cogli occhi fissi sopra una carta geografica; e chi sa da quanto tempo era là, perché egli studia anche per la strada: ci rese a mala pena il saluto, quel rusticone. Votini era vestito bene, anche troppo: aveva gli stivali di marocchino trapunti di rosso, un vestito con ricami e nappine di seta, un cappello di castoro bianco e l'orologio. E si pavoneggiava. Ma la sua vanità doveva capitar male questa volta. Dopo aver corso un bel pezzo su per il viale, lasciandoci molto addietro suo padre, che andava adagio, ci fermammo a un sedile di pietra, accanto a un ragazzo vestito modestamente, che pareva stanco, e pensava, col capo basso. Un uomo, che doveva essere suo padre, andava e veniva sotto gli alberi, leggendo la gazzetta. Ci sedemmo. Votini si mise tra me e il ragazzo. E subito si ricordò d'essere vestito bene, e volle farsi ammirare e invidiare dal suo vicino.  
    Alzò un piede e mi disse: - Hai visto i miei stivali da ufficiale? - Lo disse per farli guardar da quell'altro. Ma quegli non gli badò.  
    Allora abbassò il piede, e mi mostrò le sue nappine di seta, e mi disse, guardando di sott'occhio il ragazzo, che quelle nappine di seta non gli piacevano, e che le volea far cambiare in bottoni d'argento. Ma il ragazzo non guardò neppure le nappine.  
    Votini allora si mise a far girare sulla punta dell'indice il suo bellissimo cappello di castoro bianco. Ma il ragazzo, pareva che lo facesse per punto, non degnò d'uno sguardo nemmeno il cappello.  
    Votini, che si cominciava a stizzire, tirò fuori l'orologio l'aperse, mi fece veder le rote. Ma quegli non voltò la testa. - È d'argento dorato? - gli domandai. - No, - rispose, - è d'oro. - Ma non sarà tutto d'oro, - dissi, - ci sarà anche dell'argento. - Ma no! - egli ribatté; - e per costringere il ragazzo a guardare gli mise l'orologio davanti al viso e gli disse: - Di' tu, guarda, non è vero che è tutto d'oro?  
    Il ragazzo rispose secco: - Non lo so.  
    - Oh! oh! - esclamò Votini, pien di rabbia, - che superbia!  
    Mentre diceva questo, sopraggiunse suo padre, che sentì: guardò un momento fisso quel ragazzo, poi disse bruscamente al figliuolo: - Taci; - e chinatosi al suo orecchio soggiunse: - È cieco.  
    Votini balzò in piedi, con un fremito, e guardò il ragazzo nel viso. Aveva le pupille vitree, senza espressione, senza sguardo.  
    Votini rimase avvilito, senza parola, con gli occhi a terra. Poi balbettò: - Mi rincresce... non lo sapevo.  
    Ma il cieco, che aveva capito tutto, disse con un sorriso buono e malinconico: - Oh! non fa nulla.  
    Ebbene, è vano; ma non ha mica cattivo cuore Votini. Per tutta la passeggiata non rise più. 


    La prima nevicata 
    10, sabato 

    Addio passeggiate a Rivoli. Ecco la bella amica dei ragazzi! Ecco la prima neve! Fin da ieri sera vien giù a fiocchi fitti e larghi come fiori di gelsomino. Era un piacere questa mattina alla scuola vederla venire contro le vetrate e ammontarsi sui davanzali; anche il maestro guardava e si fregava le mani, e tutti eran contenti pensando a fare alle palle, e al ghiaccio che verrà dopo, e al focolino di casa. Non c'era che Stardi che non ci badasse, tutto assorto nella lezione, coi pugni stretti alle tempie. Che bellezza, che festa fu all'uscita! tutti a scavallar per la strada, gridando e sbracciando, e a pigliar manate di neve e a zampettarci dentro come cagnolini nell'acqua. I parenti che aspettavan fuori avevano gli ombrelli bianchi, la guardia civica aveva l'elmetto bianco, tutti i nostri zaini in pochi momenti furon bianchi. Tutti parevan fuor di sé dall'allegrezza, perfino Precossi, il figliuolo del fabbro, quello pallidino che non ride mai, e Robetti, quello che salvò il bimbo dall'omnibus, poverino, che saltellava con le sue stampelle. Il calabrese, che non aveva mai toccato neve, se ne fece una pallottola e si mise a mangiarla come una pesca; Crossi, il figliuolo dell'erbivendola, se n'empì lo zaino; e il muratorino ci fece scoppiar da ridere, quando mio padre lo invitò a venir domani a casa nostra: egli aveva la bocca piena di neve, e non osando né sputarla né mandarla giù, stava lì ingozzato a guardarci, e non rispondeva. Anche le maestre uscivan dalla scuola di corsa, ridendo; anche la mia maestra di prima superiore, poveretta, correva a traverso al nevischio, riparandosi il viso col suo velo verde, e tossiva. E intanto centinaia di ragazze della sezione vicina passavano strillando e galoppando su quel tappeto candido, e i maestri e i bidelli e la guardia gridavano: - A casa! A casa! - ingoiando fiocchi di neve e imbiancandosi i baffi e la barba. Ma anch'essi ridevano di quella baldoria di scolari che festeggiavan l'inverno... 

    - Voi festeggiate l'inverno... Ma ci son dei ragazzi che non hanno né panni, né scarpe, né fuoco. Ce ne son migliaia i quali scendono ai villaggi, con un lungo cammino, portando nelle mani sanguinanti dai geloni un pezzo di legno per riscaldare la scuola. Ci sono centinaia di scuole quasi sepolte fra la neve, nude e tetre come spelonche, dove i ragazzi soffocano dal fumo o battono i denti dal freddo, guardando con terrore i fiocchi bianchi che scendono senza fine, che s'ammucchiano senza posa sulle loro capanne lontane, minacciate dalle valanghe. Voi festeggiate l'inverno, ragazzi. Pensate alle migliaia di creature a cui l'inverno porta la miseria e la morte. 

    TUO PADRE

    Il muratorino 
    11, domenica 

    Il «muratorino» è venuto oggi, in cacciatora, tutto vestito di roba smessa di suo padre, ancora bianca di calcina e di gesso. Mio padre lo desiderava anche più di me che venisse. Come ci fece piacere! Appena entrato, si levò il cappello a cencio ch'era tutto bagnato di neve e se lo ficcò in un taschino; poi venne innanzi, con quella sua andatura trascurata d'operaio stanco, rivolgendo qua e là il visetto tondo come una mela, col suo naso a pallottola; e quando fu nella sala da desinare, data un'occhiata in giro ai mobili, e fissati gli occhi sur un quadretto che rappresenta Rigoletto, un buffone gobbo, fece il «muso di lepre». È impossibile trattenersi dal ridere a vedergli fare il muso di lepre. Ci mettemmo a giocare coi legnetti: egli ha un'abilità straordinaria a far torri e ponti, che par che stian su per miracolo, e ci lavora tutto serio, con la pazienza di un uomo. Fra una torre e l'altra, mi disse della sua famiglia: stanno in una soffitta, suo padre va alle scuole serali a imparar a leggere, sua madre è biellese. E gli debbono voler bene, si capisce, perché è vestito così da povero figliuolo, ma ben riparato dal freddo, coi panni ben rammendati, con la cravatta annodata bene dalla mano di sua madre. Suo padre, mi disse, è un pezzo d'uomo, un gigante, che stenta a passar per le porte; ma buono, e chiama sempre il figliuolo «muso di lepre»; il figliuolo, invece, è piccolino. Alle quattro si fece merenda insieme con pane e zebibbo, seduti sul sofà, e quando ci alzammo, non so perché, mio padre non volle che ripulissi la spalliera che il muratorino aveva macchiata di bianco con la sua giacchetta: mi trattenne la mano e ripulì poi lui, di nascosto. Giocando, il muratorino perdette un bottone della cacciatora, e mia madre glie l'attaccò, ed egli si fece rosso e stette a vederla cucire tutto meravigliato e confuso, trattenendo il respiro. Poi gli diedi a vedere degli album di caricature ed egli, senz'avvedersene, imitava le smorfie di quelle facce, così bene, che anche mio padre rideva. Era tanto contento quando andò via, che dimenticò di rimettersi in capo il berretto a cencio, e arrivato sul pianerottolo, per mostrarmi la sua gratitudine mi fece ancora una volta il muso di lepre. Egli si chiama Antonio Rabucco, e ha otto anni e otto mesi... 

    - Lo sai, figliuolo, perché non volli che ripulissi il sofà? Perché ripulirlo, mentre il tuo compagno vedeva, era quasi un fargli rimprovero d'averlo insudiciato. E questo non stava bene, prima perché non l'aveva fatto apposta, e poi perché l'aveva fatto coi panni di suo padre, il quale se li è ingessati lavorando; e quello che si fa lavorando non è sudiciume: è polvere, è calce, è vernice, è tutto quello che vuoi, ma non sudiciume. Il lavoro non insudicia. Non dir mai d'un operaio che vien dal lavoro: - È sporco. - Devi dire: - Ha sui panni i segni, le tracce del suo lavoro. Ricordatene. E vogli bene al muratorino, prima perché è tuo compagno, poi perché è figliuolo d'un operaio. 

    TUO PADRE

    Una palla di neve 
    16, venerdì 

    E sempre nevica, nevica. Seguì un brutto caso, questa mattina, con la neve, all'uscir dalla scuola. Un branco di ragazzi, appena sboccati sul Corso, si misero a tirar palle, con quella neve acquosa, che fa le palle sode e pesanti come pietre. Molta gente passava sul marciapiedi. Un signore gridò: - Smettete, monelli! - e proprio in quel punto si udì un grido acuto dall'altra parte della strada, e si vide un vecchio che aveva perduto il cappello e barcollava, coprendosi il viso con le mani, e accanto a lui un ragazzo che gridava: - Aiuto! Aiuto! - Subito accorse gente da ogni parte. Era stato colpito da una palla in un occhio. Tutti i ragazzi si sbandarono fuggendo come saette. Io stavo davanti alla bottega del libraio, dov'era entrato mio padre, e vidi arrivar di corsa parecchi miei compagni che si mescolarono fra gli altri vicini a me, e finsero di guardar le vetrine: c'era Garrone, con la sua solita pagnotta in tasca, Coretti, il muratorino, e Garoffi, quello dei francobolli. Intanto s'era fatta folla intorno al vecchio, e una guardia ed altri correvano qua e là minacciando e domandando: - Chi è? chi è stato? Sei tu? Dite chi è stato! - e guardavan le mani ai ragazzi, se le avevan bagnate di neve. Garoffi era accanto a me: m'accorsi che tremava tutto, e che avea il viso bianco come un morto. - Chi è? Chi è stato? - continuava a gridare la gente. - Allora intesi Garrone che disse piano a Garoffi: - Su, vatti a presentare; sarebbe una vigliaccheria lasciar agguantare qualcun altro. - Ma io non l'ho fatto apposta! - rispose Garoffi, tremando come una foglia. - Non importa fa il tuo dovere, - ripeté Garrone. - Ma io non ho coraggio! - Fatti coraggio, t'accompagno io. - E la guardia e gli altri gridavan sempre più forte: - Chi è? Chi è stato? Un occhiale in un occhio gli han fatto entrare! L'hanno accecato! Briganti! - Io credetti che Garoffi cascasse in terra. - Vieni, - gli disse risolutamente Garrone, - io ti difendo, - e afferratolo per un braccio lo spinse avanti, sostenendolo, come un malato. La gente vide e capì subito, e parecchi accorsero coi pugni alzati. Ma Garrone si fece in mezzo, gridando: - Vi mettete in dieci uomini contro un ragazzo? - Allora quelli ristettero, e una guardia civica pigliò Garoffi per mano e lo condusse, aprendo la folla, a una bottega di pastaio, dove avevano ricoverato il ferito. Vedendolo, riconobbi subito il vecchio impiegato, che sta al quarto piano di casa nostra, col suo nipotino. Era adagiato sur una seggiola, con un fazzoletto sugli occhi. - Non l'ho fatto apposta! - diceva singhiozzando Garoffi, mezzo morto dalla paura, - non l'ho fatto apposta! - Due o tre persone lo spinsero violentemente nella bottega, gridando: - La fronte a terra! Domanda perdono! - e lo gettarono a terra. Ma subito due braccia vigorose lo rimisero in piedi e una voce risoluta disse: - No, signori! - Era il nostro Direttore, che avea visto tutto. - Poiché ha avuto il coraggio di presentarsi, - soggiunse- nessuno ha il diritto di avvilirlo. Tutti stettero zitti. - Domanda perdono, - disse il Direttore a Garoffi. Garoffi, scoppiando in pianto, abbracciò le ginocchia del vecchio, e questi, cercata con la mano la testa di lui, gli carezzò i capelli. Allora tutti dissero: - Va', ragazzo, va', torna a casa! - E mio padre mi tirò fuori della folla e mi disse strada facendo: - Enrico, in un caso simile, avresti il coraggio di fare il tuo dovere, di andar a confessare la tua colpa? - Io gli risposi di sì. Ed egli: - Dammi la tua parola di ragazzo di cuore e d'onore che lo faresti. - Ti do la mia parola, padre mio! 


    Le maestre 
    17, sabato 

    Garoffi stava tutto pauroso, quest'oggi, ad aspettare una grande risciacquata del maestro; ma il maestro non è comparso, e poiché mancava anche il supplente, è venuta a far scuola la signora Cromi, la più attempata delle maestre, che ha due figliuoli grandi e ha insegnato a leggere e a scrivere a parecchie signore che ora vengono ad accompagnare i loro ragazzi alla Sezione Baretti. Era triste, oggi, perché ha un figliuolo malato. Appena che la videro, cominciarono a fare il chiasso. Ma essa con voce lenta e tranquilla disse: - Rispettate i miei capelli bianchi: io non sono soltanto una maestra, sono una madre; - e allora nessuno osò più di parlare, neanche quella faccia di bronzo di Franti, che si contentò di farle le beffe di nascosto. Nella classe della Cromi fu mandata la Delcati, maestra di mio fratello, e al posto della Delcati, quella che chiamano «la monachina», perché è sempre vestita di scuro, con un grembiale nero, e ha un viso piccolo e bianco, i capelli sempre lisci gli occhi chiari chiari, e una voce sottile, che par sempre che mormori preghiere. E non si capisce, dice mia madre: è così mite e timida, con quel filo di voce sempre eguale, che appena si sente, e non grida, non s'adira mai: eppure tiene i ragazzi quieti che non si sentono, i più monelli chinano il capo solo che li ammonisca col dito, pare una chiesa la sua scuola, e per questo anche chiamano lei la monachina. Ma ce n'è un'altra che mi piace pure: la maestrina della prima inferiore numero 3, quella giovane col viso color di rosa, che ha due belle pozzette nelle guancie, e porta una gran penna rossa sul cappellino e una crocetta di vetro giallo appesa al collo. È sempre allegra, tien la classe allegra, sorride sempre, grida sempre con la sua voce argentina che par che canti, picchiando la bacchetta sul tavolino e battendo le mani per impor silenzio; poi quando escono, corre come una bambina dietro all'uno e all'altro, per rimetterli in fila; e a questo tira su il bavero, a quell'altro abbottona il cappotto perché non infreddino, li segue fin nella strada perché non s'accapiglino, supplica i parenti che non li castighino a casa, porta delle pastiglie a quei che han la tosse, impresta il suo manicotto a quelli che han freddo; ed è tormentata continuamente dai più piccoli che le fanno carezze e le chiedon dei baci tirandola pel velo e per la mantiglia; ma essa li lascia fare e li bacia tutti, ridendo, e ogni giorno ritorna a casa arruffata e sgolata, tutta ansante e tutta contenta, con le sue belle pozzette e la sua penna rossa. È anche maestra di disegno delle ragazze, e mantiene col proprio lavoro sua madre e suo fratello. 


    In casa del ferito 
    18, domenica 

    È con la maestra dalla penna rossa il nipotino del vecchio impiegato che fu colpito all'occhio dalla palla di neve di Garoffi: lo abbiamo visto oggi, in casa di suo zio, che lo tiene come un figliuolo. Io avevo terminato di scrivere il racconto mensile per la settimana ventura, Il piccolo scrivano fiorentino, che il maestro mi diede a copiare; e mio padre mi ha detto: - Andiamo su al quarto piano, a veder come sta dell'occhio quel signore. - Siamo entrati in una camera quasi buia, dov'era il vecchio a letto, seduto, con molti cuscini dietro le spalle; accanto al capezzale sedeva sua moglie, e c'era in un canto il nipotino che si baloccava. Il vecchio aveva l'occhio bendato. È stato molto contento di veder mio padre, ci ha fatto sedere e ha detto che stava meglio, che l'occhio non era perduto, non solo, ma che a capo di pochi giorni sarebbe guarito. - Fu una disgrazia, - ha soggiunto; - mi duole dello spavento che deve aver avuto quel povero ragazzo. - Poi ci ha parlato del medico, che doveva venir a quell'ora, a curarlo. Proprio in quel punto, suona il campanello. - È il medico, - dice la signora. La porta s'apre... E chi vedo? Garoffi col suo mantello lungo, ritto sulla soglia, col capo chino, che non aveva coraggio di entrare. - Chi è? - domanda il malato. - È il ragazzo che tirò la palla, - dice mio padre. - E il vecchio allora: - O povero ragazzo! vieni avanti; sei venuto a domandar notizie del ferito, non è vero? Ma va meglio, sta tranquillo, va meglio, son quasi guarito. Vieni qua. - Garoffi, confuso che non ci vedeva più, s'è avvicinato al letto, forzandosi per non piangere, e il vecchio l'ha carezzato, ma egli non poteva parlare. - Grazie, ha detto il vecchio, - va pure a dire a tuo padre e a tua madre che tutto va bene, che non si dian più pensiero. - Ma Garoffi non si moveva, pareva che avesse qualcosa da dire, ma non osava. - Che mi hai da dire? che cosa vuoi dire? - Io... nulla. - Ebbene, addio, a rivederci, ragazzo; vattene pure col cuore in pace. Garoffi è andato fino alla porta, ma là s'è fermato, e s'è volto indietro verso il nipotino, che lo seguitava, e lo guardava curiosamente. Tutt'a un tratto, cavato di sotto al mantello un oggetto, lo mette in mano al ragazzo, dicendogli in fretta: - È per te, - e via come un lampo. Il ragazzo porta l'oggetto allo zio; vedono che c'è scritto su: Ti regalo questo; guardan dentro, e fanno un'esclamazione di stupore. Era l'album famoso, con la sua collezione di francobolli, che il povero Garoffi aveva portato, la collezione di cui parlava sempre, su cui aveva fondato tante speranze, e che gli era costata tante fatiche; era il suo tesoro, povero ragazzo, era metà del suo sangue, che in cambio del perdono egli regalava! 


    Il piccolo scrivano fiorentino 
    Racconto mensile 

    Faceva la quarta elementare. Era un grazioso fiorentino di dodici anni, nero di capelli e bianco di viso, figliuolo maggiore d'un impiegato delle strade ferrate, il quale, avendo molta famiglia e poco stipendio, viveva nelle strettezze. Suo padre lo amava ed era assai buono e indulgente con lui: indulgente in tutto fuorché in quello che toccava la scuola: in questo pretendeva molto e si mostrava severo perché il figliuolo doveva mettersi in grado di ottener presto un impiego per aiutar la famiglia; e per valer presto qualche cosa gli bisognava faticar molto in poco tempo. E benché il ragazzo studiasse, il padre lo esortava sempre a studiare. Era già avanzato negli anni, il padre, e il troppo lavoro l'aveva anche invecchiato prima del tempo. Non di meno, per provvedere ai bisogni della famiglia, oltre al molto lavoro che gl'imponeva il suo impiego, pigliava ancora qua e là dei lavori straordinari di copista, e passava una buona parte della notte a tavolino. Da ultimo aveva preso da una Casa editrice, che pubblicava giornali e libri a dispense, l'incarico di scriver sulle fasce il nome e l'indirizzo degli abbonati e guadagnava tre lire per ogni cinquecento di quelle strisciole di carta, scritte in caratteri grandi e regolari. Ma questo lavoro lo stancava, ed egli se ne lagnava spesso con la famiglia, a desinare. - I miei occhi se ne vanno, - diceva, - questo lavoro di notte mi finisce. - Il figliuolo gli disse un giorno: - Babbo, fammi lavorare in vece tua; tu sai che scrivo come te, tale e quale. - Ma il padre gli rispose: - No figliuolo; tu devi studiare; la tua scuola è una cosa molto più importante delle mie fasce; avrei rimorsi di rubarti un'ora; ti ringrazio, ma non voglio, e non parlarmene più.  
    Il figliuolo sapeva che con suo padre, in quelle cose, era inutile insistere, e non insistette. Ma ecco che cosa fece. Egli sapeva che a mezzanotte in punto suo padre smetteva di scrivere, e usciva dal suo stanzino da lavoro per andare nella camera da letto. Qualche volta l'aveva sentito: scoccati i dodici colpi al pendolo, aveva sentito immediatamente il rumore della seggiola smossa e il passo lento di suo padre. Una notte aspettò ch'egli fosse a letto, si vestì piano piano, andò a tentoni nello stanzino, riaccese il lume a petrolio, sedette alla scrivania, dov'era un mucchio di fasce bianche e l'elenco degli indirizzi, e cominciò a scrivere, rifacendo appuntino la scrittura di suo padre. E scriveva di buona voglia, contento, con un po' di paura, e le fasce s'ammontavano, e tratto tratto egli smetteva la penna per fregarsi le mani, e poi ricominciava con più alacrità, tendendo l'orecchio, e sorrideva. Centosessanta ne scrisse: una lira! Allora si fermò, rimise la penna dove l'aveva presa, spense il lume, e tornò a letto, in punta di piedi.  
    Quel giorno, a mezzodì, il padre sedette a tavola di buon umore. Non s'era accorto di nulla. Faceva quel lavoro meccanicamente, misurandolo a ore e pensando ad altro, e non contava le fasce scritte che il giorno dopo. Sedette a tavola di buonumore, e battendo una mano sulla spalla al figliuolo: - Eh, Giulio, - disse, - è ancora un buon lavoratore tuo padre, che tu credessi! In due ore ho fatto un buon terzo di lavoro più del solito, ieri sera. La mano è ancora lesta, e gli occhi fanno ancora il loro dovere. - E Giulio, contento, muto, diceva tra sé: «Povero babbo, oltre al guadagno, io gli dò ancora questa soddisfazione, di credersi ringiovanito. Ebbene, coraggio».  
    Incoraggiato dalla buona riuscita, la notte appresso, battute le dodici, su un'altra volta, e al lavoro. E così fece per varie notti. E suo padre non s'accorgeva di nulla. Solo una volta, a cena, uscì in quest'esclamazione: - È strano, quanto petrolio va in questa casa da un po' di tempo! Giulio ebbe una scossa; ma il discorso si fermò lì. E il lavoro notturno andò innanzi.  
    Senonché, a rompersi così il sonno ogni notte, Giulio non riposava abbastanza, la mattina si levava stanco, e la sera, facendo il lavoro di scuola, stentava a tener gli occhi aperti. Una sera, - per la prima volta in vita sua, - s'addormentò sul quaderno. - Animo! animo! - gli gridò suo padre, battendo le mani, - al lavoro! - Egli si riscosse e si rimise al lavoro. Ma la sera dopo, e i giorni seguenti, fu la cosa medesima, e peggio: sonnecchiava sui libri, si levava più tardi del solito, studiava la lezione alla stracca, pareva svogliato dello studio. Suo padre cominciò a osservarlo, poi a impensierirsi, e in fine a fargli dei rimproveri. Non glie ne aveva mai dovuto fare! - Giulio, - gli disse una mattina, - tu mi ciurli nel manico, tu non sei più quel d'una volta. Non mi va questo. Bada, tutte le speranze della famiglia riposano su di te. Io son malcontento, capisci! - A questo rimprovero, il primo veramente severo ch'ei ricevesse, il ragazzo si turbò. E «sì, - disse tra sé, - è vero; così non si può continuare; bisogna che l'inganno finisca». Ma la sera di quello stesso giorno, a desinare, suo padre uscì a dire con molta allegrezza: - Sapete che in questo mese ho guadagnato trentadue lire di più che nel mese scorso, a far fasce! - e dicendo questo, tirò di sotto alla tavola un cartoccio di dolci, che aveva comprati per festeggiare coi suoi figliuoli il guadagno straordinario, e che tutti accolsero battendo le mani. E allora Giulio riprese animo, e disse in cuor suo: «No, povero babbo, io non cesserò d'ingannarti; io farò degli sforzi più grandi per studiar lungo il giorno; ma continuerò a lavorare di notte per te e per tutti gli altri». E il padre soggiunse: - Trentadue lire di più! Son contento... Ma è quello là, - e indicò Giulio, - che mi dà dei dispiaceri. - E Giulio ricevé il rimprovero in silenzio, ricacciando dentro due lagrime che volevano uscire; ma sentendo ad un tempo nel cuore una grande dolcezza.  
    E seguitò a lavorare di forza. Ma la fatica accumulandosi alla fatica, gli riusciva sempre più difficile di resistervi. La cosa durava da due mesi. Il padre continuava a rimbrottare il figliuolo e a guardarlo con occhio sempre più corrucciato. Un giorno andò a chiedere informazioni al maestro, e il maestro gli chiese: - Sì, fa, fa, perché ha intelligenza. Ma non ha più la voglia di prima. Sonnecchia, sbadiglia, è distratto. Fa delle composizioni corte, buttate giù in fretta, in cattivo carattere. Oh! potrebbe far molto, ma molto di più. - Quella sera il padre prese il ragazzo in disparte e gli disse parole più gravi di quante ei ne avesse mai intese. - Giulio, tu vedi ch'io lavoro, ch'io mi logoro la vita per la famiglia. Tu non mi assecondi. Tu non hai cuore per me, né per i tuoi fratelli, né per tua madre! - Ah no! non lo dire, babbo! - gridò il figliuolo scoppiando in pianto, e aprì la bocca per confessare ogni cosa. Ma suo padre l'interruppe, dicendo: - Tu conosci le condizioni della famiglia; sai se c'è bisogno di buon volere e di sacrifici da parte di tutti. Io stesso, vedi, dovrei raddoppiare il mio lavoro. Io contavo questo mese sopra una gratificazione di cento lire alle strade ferrate, e ho saputo stamani che non avrò nulla! - A quella notizia, Giulio ricacciò dentro subito la confessione che gli stava per fuggire dall'anima, e ripeté risolutamente a sé stesso: «No, babbo, io non ti dirò nulla; io custodirò il segreto per poter lavorare per te; del dolore di cui ti son cagione, ti compenso altrimenti; per la scuola studierò sempre abbastanza da esser promosso; quello che importa è di aiutarti a guadagnar la vita, e di alleggerirti la fatica che t'uccide». E tirò avanti, e furono altri due mesi di lavoro di notte e di spossatezza di giorno, di sforzi disperati del figliuolo e di rimproveri amari del padre. Ma il peggio era che questi s'andava via via raffreddando col ragazzo, non gli parlava più che di rado, come se fosse un figliuolo intristito, da cui non restasse più nulla a sperare, e sfuggiva quasi d'incontrare il suo sguardo. E Giulio se n'avvedeva, e ne soffriva, e quando suo padre voltava le spalle, gli mandava un bacio furtivamente, sporgendo il viso, con un sentimento di tenerezza pietosa e triste; e tra per il dolore e per la fatica, dimagrava e scoloriva, e sempre più era costretto a trasandare i suoi studi. E capiva bene che avrebbe dovuto finirla un giorno, e ogni sera si diceva: - Questa notte non mi leverò più; - ma allo scoccare delle dodici, nel momento in cui avrebbe dovuto riaffermare vigorosamente il suo proposito, provava un rimorso, gli pareva, rimanendo a letto, di mancare a un dovere, di rubare una lira a suo padre e alla sua famiglia. E si levava, pensando che una qualche notte suo padre si sarebbe svegliato e l'avrebbe sorpreso, o che pure si sarebbe accorto dell'inganno per caso, contando le fasce due volte; e allora tutto sarebbe finito naturalmente, senza un atto della sua volontà, ch'egli non si sentiva il coraggio di compiere. E così continuava.  
    Ma una sera, a desinare, il padre pronunciò una parola che fu decisiva per lui. Sua madre lo guardò, e parendole di vederlo più malandato e più smorto del solito, gli disse: - Giulio, tu sei malato. - E poi, voltandosi al padre, ansiosamente: - Giulio è malato. Guarda com'è pallido! Giulio mio, cosa ti senti? - Il padre gli diede uno sguardo di sfuggita, e disse: - È la cattiva coscienza che fa la cattiva salute. Egli non era così quando era uno scolaro studioso e un figliuolo di cuore. - Ma egli sta male! - esclamò la mamma. - Non me ne importa più! - rispose il padre.  
    Quella parola fu una coltellata al cuore per il povero ragazzo. Ah! non glie ne importava più. Suo padre che tremava, una volta, solamente a sentirlo tossire! Non l'amava più dunque, non c'era più dubbio ora, egli era morto nel cuore di suo padre... «Ah! no, padre mio, - disse tra sé il ragazzo, col cuore stretto dall'angoscia, - ora è finita davvero, io senza il tuo affetto non posso vivere, lo rivoglio intero, ti dirò tutto, non t'ingannerò più, studierò come prima; nasca quel che nasca, purché tu torni a volermi bene, povero padre mio! Oh questa volta son ben sicuro della mia risoluzione!»  
    Ciò non di meno, quella notte si levò ancora, per forza d'abitudine, più che per altro; e quando fu levato, volle andare a salutare, a riveder per qualche minuto, nella quiete della notte, per l'ultima volta, quello stanzino dove aveva tanto lavorato segretamente, col cuore pieno di soddisfazione e di tenerezza. E quando si ritrovò al tavolino, col lume acceso, e vide quelle fasce bianche, su cui non avrebbe scritto mai più quei nomi di città e di persone che oramai sapeva a memoria, fu preso da una grande tristezza, e con un atto impetuoso ripigliò la penna, per ricominciare il lavoro consueto. Ma nello stender la mano urtò un libro, e il libro cadde. Il sangue gli diede un tuffo. Se suo padre si svegliava! Certo non l'avrebbe sorpreso a commettere una cattiva azione, egli stesso aveva ben deciso di dirgli tutto; eppure... il sentir quel passo avvicinarsi, nell'oscurità; - l'esser sorpreso a quell'ora, in quel silenzio; - sua madre che si sarebbe svegliata e spaventata, - e il pensar per la prima volta che suo padre avrebbe forse provato un'umiliazione in faccia sua, scoprendo ogni cosa... tutto questo lo atterriva, quasi. - Egli tese l'orecchio, col respiro sospeso... Non sentì rumore. Origliò alla serratura dell'uscio che aveva alle spalle: nulla. Tutta la casa dormiva. Suo padre non aveva inteso. Si tranquillò. E ricominciò a scrivere. E le fasce s'ammontavano sulle fasce. Egli sentì il passo cadenzato delle guardie civiche giù nella strada deserta; poi un rumore di carrozza che cessò tutt'a un tratto; poi, dopo un pezzo, lo strepito d'una fila di carri che passavano lentamente; poi un silenzio profondo, rotto a quando a quando dal latrato lontano d'un cane. E scriveva, scriveva. E intanto suo padre era dietro di lui: egli s'era levato udendo cadere il libro, ed era rimasto aspettando il buon punto; lo strepito dei carri aveva coperto il fruscio dei suoi passi e il cigolio leggiero delle imposte dell'uscio; ed era là, - con la sua testa bianca sopra la testina nera di Giulio, - e aveva visto correr la penna sulle fasce, - e in un momento aveva tutto indovinato, tutto ricordato, tutto compreso, e un pentimento disperato, una tenerezza immensa, gli aveva invaso l'anima, e lo teneva inchiodato, soffocato là, dietro al suo bimbo. All'improvviso, Giulio diè un grido acuto, - due braccia convulse gli avevan serrata la testa. - O babbo! babbo, perdonami! perdonami! - gridò, riconoscendo suo padre al pianto. - Tu, perdonami! - rispose il padre, singhiozzando e coprendogli la fronte di baci, - ho capito tutto, so tutto, son io, son io che ti domando perdono, santa creatura mia, vieni, vieni con me! - E lo sospinse, o piuttosto se lo portò al letto di sua madre, svegliata, e glielo gettò tra le braccia e le disse: - Bacia quest'angiolo di figliuolo che da tre mesi non dorme e lavora per me, e io gli contristo il cuore, a lui che ci guadagna il pane! - La madre se lo strinse e se lo tenne sul petto, senza poter raccoglier la voce; poi disse: - A dormire, subito, bambino mio, va' a dormire, a riposare! Portalo a letto! - Il padre lo pigliò fra le braccia, lo portò nella sua camera, lo mise a letto, sempre ansando e carezzandolo, e gli accomodò i cuscini e le coperte. - Grazie, babbo, - andava ripetendo il figliuolo, - grazie; ma va' a letto tu ora; io sono contento; va' a letto, babbo. - Ma suo padre voleva vederlo addormentato, sedette accanto al letto, gli prese la mano e gli disse:  
    - Dormi, dormi figliuol mio! - E Giulio, spossato, s'addormentò finalmente, e dormì molte ore, godendo per la prima volta, dopo vari mesi, d'un sonno tranquillo, rallegrato da sogni ridenti; e quando aprì gli occhi, che splendeva già il sole da un pezzo, sentì prima, e poi si vide accosto al petto, appoggiata sulla sponda del letticciolo, la testa bianca del padre, che aveva passata la notte così, e dormiva ancora, con la fronte contro il suo cuore. 


    La volontà 
    28, mercoledì 

    C'è Stardi, nella mia classe, che avrebbe la forza di fare quello che fece il piccolo fiorentino. Questa mattina ci furono due avvenimenti alla scuola: Garoffi, matto dalla contentezza, perché gli han restituito il suo album, con l'aggiunta di tre francobolli della repubblica di Guatemala, ch'egli cercava da tre mesi; e Stardi che ebbe la seconda medaglia. Stardi, primo della classe dopo Derossi! Tutti ne rimasero meravigliati. Chi l'avrebbe mai detto, in ottobre, quando suo padre lo condusse a scuola rinfagottato in quel cappottone verde, e disse al maestro, in faccia a tutti: - Ci abbia molta pazienza perché è molto duro di comprendonio! - Tutti gli davan della testa di legno da principio. Ma egli disse: - O schiatto, o riesco, - e si mise per morto a studiare, di giorno, di notte, a casa, in iscuola, a passeggio, coi denti stretti e coi pugni chiusi, paziente come un bove, ostinato come un mulo, e così, a furia di pestare, non curando le canzonature e tirando calci ai disturbatori, è passato innanzi agli altri, quel testone. Non capiva un'acca di aritmetica, empiva di spropositi la composizione, non riesciva a tener a mente un periodo, e ora risolve i problemi, scrive corretto e canta la lezione come un artista. E s'indovina la sua volontà di ferro a veder com'è fatto, così tozzo, col capo quadro e senza collo, con le mani corte e grosse e con quella voce rozza. Egli studia perfin nei brani di giornale e negli avvisi dei teatri, e ogni volta che ha dieci soldi si compera un libro: s'è già messo insieme una piccola biblioteca, e in un momento di buon umore si lasciò scappar di bocca che mi condurrà a casa a vederla. Non parla a nessuno, non gioca con nessuno, è sempre lì al banco coi pugni alle tempie, fermo come un masso, a sentire il maestro. Quanto deve aver faticato, povero Stardi! Il maestro glielo disse questa mattina, benché fosse impaziente e di malumore, quando diede le medaglie: - Bravo Stardi; chi la dura la vince. - Ma egli non parve affatto inorgoglito, non sorrise, e appena tornato al banco con la sua medaglia, ripiantò i due pugni alle tempie e stette più immobile e più attento di prima. Ma il più bello fu all'uscita, che c'era a aspettarlo suo padre, - un flebotomo, - grosso e tozzo come lui, con un faccione e un vocione. Egli non se l'aspettava quella medaglia, e non ci voleva credere, bisognò che il maestro lo assicurasse, e allora si mise a ridere di gusto, e diede una manata sulla nuca al figliuolo, dicendo forte: - Ma bravo, ma bene, caro zuccone mio, va'! - e lo guardava stupito, sorridendo. E tutti i ragazzi intorno sorridevano, eccettuato Stardi. Egli ruminava già nella cappadoccia la lezione di domani mattina. 


    Gratitudine 
    31, sabato 

    Il tuo compagno Stardi non si lamenta mai del suo maestro, ne son certo. - Il maestro era di malumore, era impaziente; - tu lo dici in tono di risentimento. Pensa un po' quante volte fai degli atti d'impazienza tu, e con chi? con tuo padre e con tua madre, coi quali la tua impazienza è un delitto. Ha ben ragione il tuo maestro di essere qualche volta impaziente! Pensa che da tanti anni fatica per i ragazzi; e che se n'ebbe molti affettuosi e gentili, ne trovò pure moltissimi ingrati, i quali abusarono della sua bontà, e disconobbero le sue fatiche; e che pur troppo, fra tutti, gli date più amarezze che soddisfazioni. Pensa che il più santo uomo della terra, messo al suo posto, si lascerebbe vincere qualche volta dall'ira. E poi, se sapessi quante volte il maestro va a far lezione malato, solo perché non ha un male grave abbastanza da farsi dispensar dalla scuola, ed è impaziente perché soffre, e gli è un grande dolore il vedere che voi altri non ve n'accorgete o ne abusate! Rispetta, ama il tuo maestro, figliuolo. Amalo perché tuo padre lo ama e lo rispetta; perché egli consacra la vita al bene di tanti ragazzi che lo dimenticheranno, amalo perché ti apre e t'illumina l'intelligenza e ti educa l'animo; perché un giorno, quando sarai uomo, e non saremo più al mondo né io né lui, la sua immagine ti si presenterà spesso alla mente accanto alla mia, e allora, vedi, certe espressioni di dolore e di stanchezza del suo buon viso di galantuomo, alle quali ora non badi, te le ricorderai, e ti faranno pena, anche dopo trent'anni; e ti vergognerai, proverai tristezza di non avergli voluto bene, d'esserti portato male con lui. Ama il tuo maestro, perché appartiene a quella grande famiglia di cinquantamila insegnanti elementari, sparsi per tutta Italia, i quali sono come i padri intellettuali dei milioni di ragazzi che crescon con te, i lavoratori mal riconosciuti e mal ricompensati, che preparano al nostro paese un popolo migliore del presente. Io non son contento dell'affetto che hai per me, se non ne hai pure per tutti coloro che ti fanno del bene, e fra questi il tuo maestro è il primo, dopo i tuoi parenti. Amalo come ameresti un mio fratello, amalo quando ti accarezza e quando ti rimprovera, quando è giusto e quando ti par che sia ingiusto, amalo quando è allegro e affabile, e amalo anche di più quando lo vedi triste. Amalo sempre. E pronuncia sempre con riverenza questo nome - maestro - che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo.TUO PADRE