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Racconti gratuiti
E' un altro angolo riservato ai racconti più significativi degli amici di questo sito. Ognuno può inviare via email un proprio scritto: i più belli saranno pubblicati. 
Oltre ai racconti gratuiti, riportati in questa pagina, ve ne sono altri, dello stesso autore di  La rondinella, che possono essere ricevuti via-email al costo di 1 euro per ogni racconto, indicando i titoli interessati in questo modulo di richiesta. 
Puoi leggere una breve presentazione di ciascuno di essi cliccando sul titolo corrispondente nell'apposita pagina. 
1) BLACK (Barbara)
2) La rondinella (Raffaele)
 
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BLACK 

Il primo giorno che ti vidi eri un batuffolo nero impaurito, l'ultimo giorno un batuffolo nero che macchiava di sangue una strada imbiancata da una fioca neve. 
Siamo cresciuti insieme come due fratellini abbiamo condiviso gioie, lacrime fame di dolci....ricordi quando rubai la Nutella e ce la mangiammo tutta?? non ricordo chi aveva piu' mal di pancia dei due. 
Mi aspettavi ogni giorno alla fermata dell'autobus quando tornavo da scuola, i tuoi salti da circo, la tua gioia  colorava tutto il mio mondo...il mondo di una piccola bambina come sono un po' strano ma immenso di scoperte ed emozioni. 
Il nostro amore era cosi' grande che i grandi ci volevano separare - amare 
fa paura ai grandi l'ho sentito dire sai??- ma perche'??? 
Io abbracciata a te mi sentivo sicura, amata, speciale e cercavo di fare la 
brava bambina quando mi allontanavano da te per qualche giorno. 
Mio caro Black ti scrivo ogni giorno da quella mattina che ti ho visto sulla 
strada immobile avvolto dal bianco della neve...i tuoi occhi vivranno sempre dentro il mio cuore , aspettami ovunque sarai e non abbandonarmi mai nemmeno quando diventero' una donna GRANDE perche' io saro' diversa dai grandi...ti prometto che il mio cuore restera' sempre quello di una bambina quella che tu hai amato piu' della tua vita anche quando avro' 110 anni. 
La tua Barbara 
giugno 1975 
 

LA RONDINELLA 

Quel giorno era uno come tanti, ventoso come spesso accade al mio paese in montagna. Il vento soffiava tra i rami e le foglie degli alberi del mio giardino come se volesse partecipare all’evento, come se volesse far parte della piccola storia che era iniziata una decina di giorni prima. 
Già! erano passati circa dieci giorni da quell’altra mattina di giugno. C’era il sole, l’estate era iniziata, anche per noi che la sentiamo un po’ più tardi per la nostra posizione geografica. Quell’annata era poco favorevole perché la primavera era stata piuttosto fredda ed i prodotti dell’orto, situato a confine con il nostro giardino, si mostravano lenti a crescere. Mia moglie si preoccupava dei pomidoro con i quali ogni anno faceva la salsa per il sugo. Noi non usavamo nessun prodotto chimico per migliorare la coltura e la squisitezza dei fagiolini o dell’insalata era fenomenale. L’orto era piccolo, appena cento metri quadrati, ma sufficiente per la nostra famiglia ed anche per dare qualcosa a mia madre quando tornava in estate a vivere nel nostro paese. 
Lei stava con mia sorella nel nord Italia da quando era morto mio padre e per non rimanere a vivere sola in casa aveva scelto così. Quella mia casa paterna rimaneva vuota per buona parte dell’anno ed io mi ero dovuto comprare un’altra abitazione nel centro storico per sistemarci la mia famigliola: insieme a me e mia moglie c’erano due figliolette di sette e cinque anni all’epoca del fatto che sto raccontando. La più grande, Serena, era appena stata promossa alla terza elementare (si trovava un anno avanti perché le avevo fatto saltare la prima in quanto era nata a gennaio), mentre la seconda figlia, Chiara, frequentava l’asilo ma solo per modo di dire in quanto non sempre voleva andarci e dall’inizio di giugno si era messa in vacanza un mese prima. 
La nostra abitazione era in Vico Paradiso n.1. Il vicolo era un portico con un solaio vecchissimo ancora in legno. Due piani sovrastavano quella piccola stradina, il secondo era costituito da una stanza di mia proprietà che però non ancora abitavamo perché doveva essere sistemata nell’intonaco. Chiara l’aveva scelta come sua cameretta. 
Prima di comprare la casa il vicolo era abitato da una barbona che lo aveva ridotto ad un immondezzaio. La mia abitazione, anche se ad un prezzo buono, non veniva acquistata da nessuno per tale fastidiosa vicinanza. Il caso volle, ma di questo ne racconterò in un’altra occasione, che appena comprai l’immobile la barbona morì e potetti ridare una vita degna al vicolo facendolo diventare veramente un paradiso. 
L’orto ed il giardino adiacenti erano pieni di sterpaglie perché abbandonati da una quindicina d’anni e vi era stato gettato da una strada confinante ogni rifiuto possibile. Ci vollero giorni e giorni di lavoro per risistemarlo e mesi per eliminare dal terreno pezzi di vetro, di ferro, di plastica e sassi. 
Alla fine avevamo una casa invidiata dalla gente del paese per vari motivi. In primo luogo per la "fortuna" che aveva premiato la mia famiglia quando decidemmo di comprare la casa vicina alla barbona con la morte di quest’ultima. Poi perché il prezzo era tarato sulla sua presenza ingombrante e infine perché, come architetto, avevo potuto scegliere le migliori soluzioni strutturali e di arredo. Chiunque aveva visto la nostra abitazione era rimasto a bocca aperta tra un misto di meraviglia e di invidia. Per questo motivo avevo previsto le cose migliori all’interno, dove le vivevamo solo noi e avevo lasciato l’esterno della casa quasi nelle condizioni precedenti i lavori di ristrutturazione: talora è meglio non stuzzicare la gelosia degli altri. 
Avevo costruito insieme ad un mio amico idraulico una ringhiera per la scalinata interna formata da tubi in rame. Quelli per i termosifoni, ma il bello era che erano essi stessi un radiatore in quanto collegati all’impianto. L’acqua calda che passava in essi riscaldava degnamente l’ambiente-scala e formava una elegante protezione. E dire che inizialmente per la fretta non avevo potuto mettere in opera nessuna ringhiera e due angeli accompagnavano le mie figlie che non caddero mai nonostante vi fosse il pericolo. Quando vi è necessità si riesce a rischiare qualunque cosa, anche la vita. 
Inoltre avevo scelto dei colori vivaci per i rivestimenti della cucina e dei bagni, componendo le piastrelle colorate in un simpatico schema. Un po’ la stessa cosa avevo fatto con i pavimenti, specialmente nello studio e nella sala dove avevo intrecciato il parquet con il giallo della cucina. All’ingresso avevo posto un pavimento con i mattoni fatti a mano provenienti dalla demolizione di alcuni divisori. Vi erano anche le impronte dei gatti che erano passati noncuranti dell’argilla fresca dei mattoni messi all’aria ad asciugarsi quando li avevano costruiti, penso un secolo prima a giudicare da una data scalfita con un chiodo su uno di essi. 
Dunque erano passati già dieci giorni. Ero sceso al mio studio ed avevo aperto la porta che dava verso il piccolo cortile collegato al giardino. Ero uscito a prendere una boccata d’aria, come facevo solitamente prima di mettermi al lavoro, in quel periodo quasi esclusivamente con il computer ed internet.  
Sotto il portico, proprio dove esso finiva e si apriva il nostro piccolo cortile c’era un animaletto scuro. Non avevo capito di cosa si trattasse e per questo mi avvicinai curioso: era una rondine. Non si muoveva ed allora, in ricordo di un’altra rondine che era scesa per un pluviale quando ero un bambino e poi mi si lanciò sul volto mettendomi una paura incredibile, cercai nello studio qualche cosa per poterla muovere standone ad una certa distanza. Pensavo che era morta in quanto stava tutta rannicchiata. Entrai ma mi dimenticai immediatamente di cosa dovevo fare e mi misi al lavoro. 
Dopo un po’ Serena scese nel vicolo, vide la rondine, la prese e la portò da mia moglie in casa. 
Serena aveva sempre amato gli animali, tutti. Mentre si zappava l’orto trovava spesso vermi di ogni grandezza, quasi sempre lunghi anche oltre dieci centimetri: sono gli amici di questi tipi di colture. Lei li prendeva senza nessun problema, li puliva, li accarezzava e talora li baciava. Mia moglie strillava sempre e spesso era costretta a scappare quando Serena aveva capito che, mostrandole i vermi, lei aveva un terrore inconscio. 
Mia figlia, la più grande, diceva che voleva curare gli animali. Un giorno, mi raccontò Chiara, che la sorella aveva raccolto un topo morto per studiarlo un po’ più da vicino. Ci vollero tutti i miei insegnamenti e i miei esempi per fare capire a Serena che, oltre alla bontà, esiste anche la precauzione e che comunque gli animali morti non si devono toccare. 
Mia moglie, insieme alle mie figlie, mi chiamò per dirmi che la rondine era viva. Corsi da loro. Stavano davanti allo studio, sulle scale che portavano al giardino. L’uccellino aveva qualche acciacco: un’ala, la destra, era rotta, non si piegava normalmente come l’altra. Aveva inoltre l’occhio destro quasi completamente chiuso e un po’ gonfio. Pensammo che era caduta dal nido e si era procurata dei danni, ma poi vedemmo un ragno sul suo corpo. Mia moglie, nonostante provava a toglierlo non vi riusciva perché l’animaletto si infilava sotto le piume. Allora pensammo che doveva essere una zecca. Riuscì a toglierla e Serena ne trovò altre due liberando completamente la rondine dai parassiti. Forse proprio questi le avevano procurato il gonfiore all’occhio e chissà quali altri mali. 
Preparammo una cassetta che divenne la sua casa. Serena e Chiara si misero subito al lavoro cercando di farla mangiare e bere. Gli sforzi erano inutili probabilmente perché l’uccello era ancora in tenera età. Anch’io mi cimentai, ma non vi riuscii molto. Ci volle tutta la pazienza di mia moglie e certamente anche il suo istinto materno per far aprire la bocca alla rondinella. 
Il primo giorno mangiò alcune formiche di cui il nostro orto era ricchissimo, poi mia moglie pensò ad un po’ di succo di ciliegie di cui avevamo un albero, allo zucchero, alla farina, alla carne macinata, alle mosche, alle farfalle. Io ero riuscito a farla bere con una certa facilità. La rondine si riprendeva ogni giorno di più. Se all’inizio non muoveva la testa, non apriva entrambi gli occhi, non tentava di volare, con il passare del tempo e delle cure si sentiva sempre meglio e sempre più vitale. Serena aveva scelto anche un nome: Cipì.  
Cipì diventava sempre più e velocissimamente parte della nostra famiglia. Più che una mascotte o un gioco, come poteva apparire per le mie figliolette. Si voleva mettere sull’orlo della scatola per vedere liberamente a destra e a sinistra, guardava la nostra vita in casa, si aggrappava a tutte le pareti verticali per tentare di salire. Quando mia moglie le passava accanto si voltava per controllare che non arrivasse qualcosa di gustoso per lei o che le aprisse il becco per darle un po’ d’acqua: una volta aprì da sola la bocca pensando che le desse da mangiare. 
Decidemmo di portarla nel giardino e farle gustare ancora l’aria aperta. La misi sull’erba. Tentò di volare, ma l’ala fratturata non poteva essere in condizioni di darle il giusto supporto. Camminò per qualche metro e si andò a nascondere sotto la panchina, come per non essere vista e presa, come per ritirarsi in disparte, come se si vergognasse di farsi vedere in quello stato: un uccello che non può volare non è più un uccello. Mi sembrò che fosse rimasta profondamente colpita da quella prova, forse solo ora capiva che non avrebbe più volato. 
La lasciai con le mie figliolette: talora i bimbi sanno comunicare meglio di chiunque con gli animali ed io ne avevo avuto più volte la prova con Serena. Intanto avevamo fatto una foto tutti insieme ed anche le riprese con la videocamera per un ricordo futuro. In fondo pensavo che un giorno la rondine poteva lasciarci in un modo o in altro. 
Notai qualcosa di strano attorno alla scatola della rondine nel giardino e difatti Chiara la voleva lavare e l’aveva bagnata. Vidi la rondinella tremante e la portai immediatamente ad asciugare con il fono. Pensai che si potesse riprendere, in fondo il caldo le faceva piacere. Invece da quel momento, dopo che era andata migliorando sempre di più, cominciarono i tre giorni tristi per lei e per noi. 
Serena aveva pesato la rondine con molta sagacia, visto che nessuno di noi ci aveva pensato. All’inizio era di 42 grammi. Io avevo inviato un’email a Mike, un amico di origine italiana che viveva all’epoca in Israele. Lui aveva studiato in Italia e si era laureato in veterinaria. Mi rispose dicendomi che le rondini sono animali delicati che non vogliono nemmeno essere toccati, a volte anche uno sbalzo di temperatura può nuocerle e subiscono facilmente uno shock che li porta alla morte. 
Ma la nostra rondinella era già morta. In tre giorni aveva perso 14 grammi, alla fine ne pesava solo 28. La sera prima l’avevamo vista sempre abbandonata come i due giorni precedenti, ma con gli occhi quasi sempre chiusi, sfinita. Pensavamo che l’alimentazione non era sufficiente o non adatta, che il lavaggio operato da Chiara le avesse portato febbre o qualche malanno. Ero andato a tarda sera nell’orto a procurarmi delle formiche e mia moglie gliele aveva introdotte nella gola. Ma era diventata uno scheletro, faceva pena, forse ormai voleva lasciarsi morire. 
La mattina, quella mattina ventosa, mi ero svegliato con il pensiero di controllare Cipì, di darle qualche verme forse più adatto ai suoi gusti. Ma, come aveva previsto mia moglie e noi tutti, la rondinella non c’era più. Era morta. Lessi l’email di Mike che mi parlava dello shock e della delicatezza dell’uccello. Gli risposi che la vita ha tutti i suoi lati che confinano con la morte e che mentre gli scrivevo stavo piangendo. Era la verità. 
Come ci si potesse affezionare ad un così piccolo animale in pochissimi giorni è un mistero dell’animo umano. Non eravamo riusciti a ridare la vita ad un esserino che già la stava perdendo. Dissi a mia moglie di svegliare le bimbe perché avremmo seppellito la nostra rondine nel giardino, sotto l’albero, il più bello: il nostro lauro. Venne Serena triste come non l’avevo mai vista con Cipì nella mano. Non parlò. Disse solo: Sono pronta! e scoppiò in un pianto così sentito che mi commosse e con le lacrime agli occhi ci dirigemmo con la paletta verso il lauro. Mentre scavavo la piccola fossa Serena mi disse che la rondine era morta perché le avevamo dato troppe formiche: -Guarda, le ha ancora in bocca... 
Le aveva controllato il becco e l’aveva aperto: è sempre stata curiosa mia figlia. 
Lei non riusciva a frenare il pianto e non vedevo il motivo per non farmi vedere piangere. Le dissi che erano ancora lì perché Cipì non era riuscita a mangiarle. Era già sfinita che non aveva più nemmeno la forza per deglutire. Era morta subito dopo che avevamo tentato di darle l’ultimo pasto. 
Nel frattempo venne anche Chiara e le dissi che stavamo seppellendo la rondine dalla parte dell’albero che fronteggiava la nostra finestra sul giardino, in modo che potevamo sempre vederla e non l’avremmo dimenticata mai più. Mi rispose: -E se poi la dimentichiamo? 
Non credo che la dimenticheremo. E’ ancora là, la nostra rondinella, sotto il nostro lauro, nel nostro giardino dove la posammo in una giornata ventosa di inizio luglio. 
Cipì resterai sempre con noi come qualunque persona cara. 
Raffaele 
Frosolone, 3 luglio 2000