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Canto notturno di un pastore errante nell'Asia
 
Alcuni termini (vecchierel, avvampa) ricordano il Petrarca di Movesi vecchierel e Solo e Pensoso. Questa lirica è un vero canto alla luna e poi al gregge sulla condizione umana. I dubbi del poeta, espressi in tanti punti interrogativi, sono in realtà i passi della sua espressione artistica, composta qui, con parole semplici e dolci. Le frasi si susseguono piane e leggere, ma intrise di sentimento e di immediata lettura. Bellissima poesia.
 
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 Canto notturno di un pastore errante dell'Asia 

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, 
Silenziosa luna? 
Sorgi la sera, e vai, 
Contemplando i deserti; indi ti posi. 
Ancor non sei tu paga 
Di riandare i sempiterni calli? 
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga 
Di mirar queste valli? 
Somiglia alla tua vita 
La vita del pastore. 
Sorge in sul primo albore; 
Move la greggia oltre pel campo, e vede 
Greggi, fontane ed erbe; 
Poi stanco si riposa in su la sera: 
Altro mai non ispera. 
Dimmi, o luna: a che vale 
Al pastor la sua vita, 
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende 
Questo vagar mio breve, 
Il tuo corso immortale? 
Vecchierel bianco, infermo, 
Mezzo vestito e scalzo, 
Con gravissimo fascio in su le spalle, 
Per montagna e per valle, 
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, 
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa 
L'ora, e quando poi gela, 
Corre via, corre, anela, 
Varca torrenti e stagni, 
Cade, risorge, e più e più s'affretta, 
Senza posa o ristoro, 
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva 
Colà dove la via 
E dove il tanto affaticar fu volto: 
Abisso orrido, immenso, 
Ov'ei precipitando, il tutto obblia. 
Vergine luna, tale 
È la vita mortale. 
Nasce l'uomo a fatica, 
Ed è rischio di morte il nascimento. 
Prova pena e tormento 
Per prima cosa; e in sul principio stesso 
La madre e il genitore 
Il prende a consolar dell'esser nato. 
Poi che crescendo viene, 
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre 
Con atti e con parole 
Studiasi fargli core, 
E consolarlo dell'umano stato: 
Altro ufficio più grato 
Non si fa da parenti alla lor prole. 
Ma perché dare al sole, 
Perché reggere in vita 
Chi poi di quella consolar convenga? 
Se la vita è sventura 
Perché da noi si dura? 
Intatta luna, tale 
E` lo stato mortale. 
Ma tu mortal non sei, 
E forse del mio dir poco ti cale. 
Pur tu, solinga, eterna peregrina, 
Che sì pensosa sei, tu forse intendi, 
Questo viver terreno, 
Il patir nostro, il sospirar, che sia; 
Che sia questo morir, questo supremo 
Scolorar del sembiante, 
E perir dalla terra, e venir meno 
Ad ogni usata, amante compagnia. 
E tu certo comprendi 
Il perché delle cose, e vedi il frutto 
Del mattin, della sera, 
Del tacito, infinito andar del tempo. 
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore 
Rida la primavera,  
A chi giovi l'ardore, e che procacci 
Il verno co' suoi ghiacci. 
Mille cose sai tu, mille discopri, 
Che son celate al semplice pastore. 
Spesso quand'io ti miro 
Star così muta in sul deserto piano, 
Che, in suo giro lontano, al ciel confina; 
Ovver con la mia greggia 
Seguirmi viaggiando a mano a mano; 
E quando miro in cielo arder le stelle; 
Dico fra me pensando: 
A che tante facelle? 
Che fa l'aria infinita, e quel profondo 
Infinito seren? che vuol dir questa 
Solitudine immensa? ed io che sono? 
Così meco ragiono: e della stanza 
Smisurata e superba, 
E dell'innumerabile famiglia; 
Poi di tanto adoprar, di tanti moti 
D'ogni celeste, ogni terrena cosa, 
Girando senza posa, 
Per tornar sempre là donde son mosse; 
Uso alcuno, alcun frutto 
Indovinar non so. Ma tu per certo, 
Giovinetta immortal, conosci il tutto. 
Questo io conosco e sento, 
Che degli eterni giri, 
Che dell'esser mio frale, 
Qualche bene o contento 
Avrà fors'altri; a me la vita è male. 
O greggia mia che posi, oh te beata, 
Che la miseria tua, credo, non sai! 
Quanta invidia ti porto! 
Non sol perché d'affanno 
Quasi libera vai; 
Ch'ogni stento, ogni danno, 
Ogni estremo timor subito scordi; 
Ma più perché giammai tedio non provi. 
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, 
Tu se' queta e contenta; 
E gran parte dell'anno 
Senza noia consumi in quello stato. 
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, 
E un fastidio m'ingombra 
La mente, ed uno spron quasi mi punge 
Sì che, sedendo, più che mai son lunge 
Da trovar pace o loco. 
E pur nulla non bramo, 
E non ho fino a qui cagion di pianto. 
Quel che tu goda o quanto, 
Non so già dir; ma fortunata sei. 
Ed io godo ancor poco, 
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno. 
Se tu parlar sapessi, io chiederei: 
Dimmi: perché giacendo 
A bell'agio, ozioso, 
S'appaga ogni animale; 
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? 
Forse s'avess'io l'ale 
Da volar su le nubi, 
E noverar le stelle ad una ad una, 
O come il tuono errar di giogo in giogo, 
Più felice sarei, dolce mia greggia, 
Più felice sarei, candida luna. 
O forse erra dal vero, 
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: 
Forse in qual forma, in quale 
Stato che sia, dentro covile o cuna, 
È funesto a chi nasce il dì natale. 

(Giacomo Leopardi 19° secolo)