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La ginestra
 
Una lunghissima poesia in cui il poeta si rivolge alla ginestra e parla dei suoi pensieri. Spesso il Leopardi, (ma come non ricordare la ballatetta di Cavalcanti o altre composizioni simili?), personifica le cose (la luna, il gregge, il passero) utilizzando il loro silenzio per riflettere sull'umano destino. Qui, oltre al tema della vita e della morte, si possono gustare alcune immagini colorate ed i profumi della natura.
 
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 La ginestra 

Qui su l'arida schiena 
Del formidabil monte 
Sterminator Vesevo, 
La qual null'altro allegra arbor né fiore, 
Tuoi cespi solitari intorno spargi, 
Odorata ginestra, 
Contenta dei deserti. Anco ti vidi 
De' tuoi steli abbellir l'erme contrade 
Che cingon la cittade 
La qual fu donna de' mortali un tempo, 
E del perduto impero 
Par che col grave e taciturno aspetto 
Faccian fede e ricordo al passeggero. 
Or ti riveggo in questo suol, di tristi 
Lochi e dal mondo abbandonati amante, 
E d'afflitte fortune ognor compagna. 
Questi campi cosparsi 
Di ceneri infeconde, e ricoperti 
Dell'impietrata lava, 
Che sotto i passi al peregrin risona; 
Dove s'annida e si contorce al sole 
La serpe, e dove al noto 
Cavernoso covil torna il coniglio; 
Fur liete ville e colti, 
E biondeggiàr di spiche, e risonaro 
Di muggito d'armenti; 
Fur giardini e palagi, 
Agli ozi de' potenti 
Gradito ospizio; e fur città famose 
Che coi torrenti suoi l'altero monte 
Dall'ignea bocca fulminando oppresse 
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno 
Una ruina involve, 
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi 
I danni altrui commiserando, al cielo 
Di dolcissimo odor mandi un profumo, 
Che il deserto consola. A queste piagge 
Venga colui che d'esaltar con lode 
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto 
È il gener nostro in cura 
All'amante natura. E la possanza 
Qui con giusta misura 
Anco estimar potrà dell'uman seme, 
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme, 
Con lieve moto in un momento annulla 
In parte, e può con moti 
Poco men lievi ancor subitamente 
Annichilare in tutto. 
Dipinte in queste rive 
Son dell'umana gente 
Le magnifiche sorti e progressive . 
Qui mira e qui ti specchia, 
Secol superbo e sciocco, 
Che il calle insino allora 
Dal risorto pensier segnato innanti 
Abbandonasti, e volti addietro i passi, 
Del ritornar ti vanti, 
E procedere il chiami. 
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti, 
Di cui lor sorte rea padre ti fece, 
Vanno adulando, ancora 
Ch'a ludibrio talora 
T'abbian fra sé. Non io 
Con tal vergogna scenderò sotterra; 
Ma il disprezzo piuttosto che si serra 
Di te nel petto mio, 
Mostrato avrò quanto si possa aperto: 
Ben ch'io sappia che obblio 
Preme chi troppo all'età propria increbbe. 
Di questo mal, che teco 
Mi fia comune, assai finor mi rido. 
Libertà vai sognando, e servo a un tempo 
Vuoi di novo il pensiero, 
Sol per cui risorgemmo 
Della barbarie in parte, e per cui solo 
Si cresce in civiltà, che sola in meglio 
Guida i pubblici fati. 
Così ti spiacque il vero 
Dell'aspra sorte e del depresso loco 
Che natura ci diè. Per questo il tergo 
Vigliaccamente rivolgesti al lume 
Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli 
Vil chi lui segue, e solo 
Magnanimo colui 
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, 
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle. 
Uom di povero stato e membra inferme 
Che sia dell'alma generoso ed alto, 
Non chiama sé né stima 
Ricco d'or né gagliardo, 
E di splendida vita o di valente 
Persona infra la gente 
Non fa risibil mostra; 
Ma sé di forza e di tesor mendico 
Lascia parer senza vergogna, e noma 
Parlando, apertamente, e di sue cose 
Fa stima al vero uguale. 
Magnanimo animale 
Non credo io già, ma stolto, 
Quel che nato a perir, nutrito in pene, 
Dice, a goder son fatto, 
E di fetido orgoglio 
Empie le carte, eccelsi fati e nove 
Felicità, quali il ciel tutto ignora, 
Non pur quest'orbe, promettendo in terra 
A popoli che un'onda 
Di mar commosso, un fiato 
D'aura maligna, un sotterraneo crollo 
Distrugge sì, che avanza 
A gran pena di lor la rimembranza. 
Nobil natura è quella 
Che a sollevar s'ardisce 
Gli occhi mortali incontra 
Al comun fato, e che con franca lingua, 
Nulla al ver detraendo, 
Confessa il mal che ci fu dato in sorte, 
E il basso stato e frale; 
Quella che grande e forte 
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire 
Fraterne, ancor più gravi 
D'ogni altro danno, accresce 
Alle miserie sue, l'uomo incolpando 
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella 
Che veramente è rea, che de' mortali 
Madre è di parto e di voler matrigna. 
Costei chiama inimica; e incontro a questa 
Congiunta esser pensando, 
Siccome è il vero, ed ordinata in pria 
L'umana compagnia, 
Tutti fra sé confederati estima 
Gli uomini, e tutti abbraccia 
Con vero amor, porgendo 
Valida e pronta ed aspettando aita 
Negli alterni perigli e nelle angosce 
Della guerra comune. Ed alle offese 
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre 
Al vicino ed inciampo, 
Stolto crede così qual fora in campo 
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo 
Incalzar degli assalti, 
Gl'inimici obbliando, acerbe gare 
Imprender con gli amici, 
E sparger fuga e fulminar col brando 
Infra i propri guerrieri. 
Così fatti pensieri 
Quando fien, come fur, palesi al volgo, 
E quell'orror che primo 
Contra l'empia natura 
Strinse i mortali in social catena, 
Fia ricondotto in parte 
Da verace saper, l'onesto e il retto 
Conversar cittadino, 
E giustizia e pietade, altra radice 
Avranno allor che non superbe fole, 
Ove fondata probità del volgo 
Così star suole in piede 
Quale star può quel ch'ha in error la sede. 
Sovente in queste rive, 
Che, desolate, a bruno 
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, 
Seggo la notte; e su la mesta landa 
In purissimo azzurro 
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, 
Cui di lontan fa specchio 
Il mare, e tutto di scintille in giro 
Per lo vòto seren brillare il mondo. 
E poi che gli occhi a quelle luci appunto, 
Ch'a lor sembrano un punto, 
E sono immense, in guisa 
Che un punto a petto a lor son terra e mare 
Veracemente; a cui 
L'uomo non pur, ma questo 
Globo ove l'uomo è nulla, 
Sconosciuto è del tutto; e quando miro 
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti 
Nodi quasi di stelle, 
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo 
E non la terra sol, ma tutte in uno, 
Del numero infinite e della mole, 
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle 
O sono ignote, o così paion come 
Essi alla terra, un punto 
Di luce nebulosa; al pensier mio 
Che sembri allora, o prole 
Dell'uomo? E rimembrando 
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno 
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte, 
Che te signora e fine 
Credi tu data al Tutto, e quante volte 
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro 
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome, 
Per tua cagion, dell'universe cose 
Scender gli autori, e conversar sovente 
Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi 
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta 
Fin la presente età, che in conoscenza 
Ed in civil costume 
Sembra tutte avanzar; qual moto allora, 
Mortal prole infelice, o qual pensiero 
Verso te finalmente il cor m'assale? 
Non so se il riso o la pietà prevale. 
Come d'arbor cadendo un picciol pomo, 
Cui là nel tardo autunno 
Maturità senz'altra forza atterra, 
D'un popol di formiche i dolci alberghi, 
Cavati in molle gleba 
Con gran lavoro, e l'opre 
E le ricchezze che adunate a prova 
Con lungo affaticar l'assidua gente 
Avea provvidamente al tempo estivo, 
Schiaccia, diserta e copre 
In un punto; così d'alto piombando, 
Dall'utero tonante 
Scagliata al ciel profondo, 
Di ceneri e di pomici e di sassi 
Notte e ruina, infusa 
Di bollenti ruscelli 
O pel montano fianco 
Furiosa tra l'erba 
Di liquefatti massi 
E di metalli e d'infocata arena 
Scendendo immensa piena, 
Le cittadi che il mar là su l'estremo 
Lido aspergea, confuse 
E infranse e ricoperse 
In pochi istanti: onde su quelle or pasce 
La capra, e città nove 
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello 
Son le sepolte, e le prostrate mura 
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta. 
Non ha natura al seme 
Dell'uom più stima o cura 
Che alla formica: e se più rara in quello 
Che nell'altra è la strage, 
Non avvien ciò d'altronde 
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde. 
Ben mille ed ottocento 
Anni varcàr poi che spariro, oppressi 
Dall'ignea forza, i popolati seggi, 
E il villanello intento 
Ai vigneti, che a stento in questi campi 
Nutre la morta zolla e incenerita, 
Ancor leva lo sguardo 
Sospettoso alla vetta 
Fatal, che nulla mai fatta più mite 
Ancor siede tremenda, ancor minaccia 
A lui strage ed ai figli ed agli averi 
Lor poverelli. E spesso 
Il meschino in sul tetto 
Dell'ostel villereccio, alla vagante 
Aura giacendo tutta notte insonne, 
E balzando più volte, esplora il corso 
Del temuto bollor, che si riversa 
Dall'inesausto grembo 
Su l'arenoso dorso, a cui riluce 
Di Capri la marina 
E di Napoli il porto e Mergellina. 
E se appressar lo vede, o se nel cupo 
Del domestico pozzo ode mai l'acqua 
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, 
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto 
Di lor cose rapir posson, fuggendo, 
Vede lontan l'usato 
Suo nido, e il picciol campo, 
Che gli fu dalla fame unico schermo, 
Preda al flutto rovente, 
Che crepitando giunge, e inesorato 
Durabilmente sovra quei si spiega. 
Torna al celeste raggio 
Dopo l'antica obblivion l'estinta 
Pompei, come sepolto 
Scheletro, cui di terra 
Avarizia o pietà rende all'aperto; 
E dal deserto foro 
Diritto infra le file 
Dei mozzi colonnati il peregrino 
Lunge contempla il bipartito giogo 
E la cresta fumante, 
Che alla sparsa ruina ancor minaccia. 
E nell'orror della secreta notte 
Per li vacui teatri, 
Per li templi deformi e per le rotte 
Case, ove i parti il pipistrello asconde, 
Come sinistra face 
Che per vòti palagi atra s'aggiri, 
Corre il baglior della funerea lava, 
Che di lontan per l'ombre 
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. 
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi 
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno 
Dopo gli avi i nepoti, 
Sta natura ognor verde, anzi procede 
Per sì lungo cammino 
Che sembra star. Caggiono i regni intanto, 
Passan genti e linguaggi: ella nol vede: 
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto. 
E tu, lenta ginestra, 
Che di selve odorate 
Queste campagne dispogliate adorni, 
Anche tu presto alla crudel possanza 
Soccomberai del sotterraneo foco, 
Che ritornando al loco 
Già noto, stenderà l'avaro lembo 
Su tue molli foreste. E piegherai 
Sotto il fascio mortal non renitente 
Il tuo capo innocente: 
Ma non piegato insino allora indarno 
Codardamente supplicando innanzi 
Al futuro oppressor; ma non eretto 
Con forsennato orgoglio inver le stelle, 
Né sul deserto, dove 
E la sede e i natali 
Non per voler ma per fortuna avesti; 
Ma più saggia, ma tanto 
Meno inferma dell'uom, quanto le frali 
Tue stirpi non credesti 
O dal fato o da te fatte immortali. 

(Giacomo Leopardi 19° secolo)